L’assicurazione Hi-tech

Si chiede il giovane assicuratore: «che tipo di cliente dovremo attenderci? Qualcuno immerso in processi di trasformazione che lo circondano, con consumi ibridi di cui occorrerà tener conto. Avremo la necessità di mescolare approcci on line e offline, offrendo una strategia multicanale propria di un servizio misto. Sarà utilizzatore competente di internet, controllando di persona se il servizio che gli stiamo proponendo è competitivo oppure no. Solitamente non lo sarà, perché potrà trovare in rete chi gli offre di meno, a volte anche molto di meno. Molto probabilmente navigherà con smartphone o tablet, piuttosto che con un pc (ormai metà degli italiani ne possiede uno) e il tempo dedicato sarà sempre maggiore. Nuove modalità di lavoro e di svago (telelavoro, e-commerce, acquisti on line) porteranno a cambiamenti nell’orizzonte assicurativo: il concetto – tanto per fare un esempio – di “luogo di lavoro” da assicurare esisterà sempre meno. Si parla di consumatore “ibrido”, che unisce quotidianamente “reale e virtuale” non solo per lo svago».

Ne consegue che l’assicuratore al passo coi tempi può cavalcare le opportunità solo accogliendo in anticipo gli sviluppi tecnologici. In altre parole, inutile tentare di avere un rapporto fiduciario con il proprio cliente se non si è disponibili a rispondere in tempo reale su whatsapp, o sul profilo Fb per segnalare le novità; adeguandosi alle opportunità in maturazione, mostrandosi aggiornato nelle proposte. Ossia, entrando con la massima consapevolezza nel cuore del proprio tempo, l’Età del cosiddetto “informazionalismo”: l’informazione come materia prima del nuovo modo di produrre, reso possibile  dall’attuale evoluzione dell’ICT (Information, Communication Technology), in cui convergono le acquisizioni della microelettronica, dell’elaborazione dati, delle telecomunicazioni/trasmissioni, nonché dell’opto elettronica. Ossia la capacità di governare (elaborare) l’immensa quantità di dati messi a disposizione dalle trasformazioni epocali. Sintetizzate nell’espressione onnicomprensiva di “Big Data”.

Alec Ross, consigliere per l’innovazione del governo Obama, ha recentemente riassunto tali dinamiche osservando che «con il succedersi delle invenzioni di telegrafo, telefono, radio, televisione e computer, durante il XX secolo la quantità dei dati del mondo è cresciuta tumultuosamente. Nel 1996 la loro massa era tale che, con l’elaborazione informatica ormai sufficientemente a buon mercato, la memorizzazione digitale era diventata per la prima volta più conveniente dell’impiego di supporti cartacei. Ancora nel 2000, solo il 25 per cento dei dati era conservato in formato digitale. Meno di un decennio dopo, nel 2007, la percentuale era balzata al 97 per cento. E da allora ha continuato a crescere» (Il nostro futuro, Feltrinelli, Milano 2016 pag. 192). Con una precisazione: anche in questo caso l’impatto sulla vita materiale si preannuncia pervasivo. Eliminando barriere e creando canali, ma anche favorendo confronti e smascherando inadeguatezze.

Perché, tornando da dove siamo partiti, anche nel settore assicurativo ci sono i buoni e i cattivi, i competenti affidabili e i venditori di fumo. E il mondo Big Data lo metterà sempre più in evidenza.

Saverio Zavaglia

Ceo Overform Assicura

 

Responsabilità civile, spia del ritardo nazionale

Una recente ricerca ha evidenziato come in Italia la polizza RCA (“responsabilità civile autoveicoli”, che nel nostro ordinamento giuridico attiene alla responsabilità giuridica per i rischi derivanti dagli eventuali danni cagionati a persone o cose, a causa della circolazione di autoveicoli su strada, e per i quali è obbligatorio garantirsi presso una compagnia di assicurazioni autorizzata) abbia un costo superiore del 45% rispetto alle medie europee (491 € contro 278).

Analizzando le ragioni di tale divario, emerge tutta una serie di patologie nazionali che dimostrano quanto l’osservatorio assicurativo sia prezioso per evidenziare (e – auspicabilmente – sciogliere) i nodi della modernizzazione tardiva che tuttora affligge l’intero sistema-Paese.

Infatti l’analisi in questione ci dice che tali maggiori costi, i quali tra l’altro scoraggiano l’accesso generalizzato alla prevenzione, dipendono per il 60% da addebiti inerenti alla gestione del sinistro, per il 24% da aggravi fiscali e – infine – per il restante 16% riguardano voci diverse, quali distribuzione, marketing e spese amministrative).

Per la prima posta si segnala l’incidenza dei contenziosi, a conferma di una sorta di arcaicità culturale che evita il ricorso alle pratiche conciliatorie extragiudiziarie, preferendo l’andata in giudizio; con ben il 45% degli incidenti che diventano cause in tribunale, contro un meno 15% del trend continentale.

La seconda voce segnala gli effetti di “inefficientamento” sull’intero comparto economico derivante dal peso cronicizzato del debito pubblico (il cosiddetto “rosso dello Stato”), che da tempo in Italia ha superato il 130% del prodotto interno lordo (PIL). Il tutto ulteriormente aggravato dal fatto che – secondo il Patto di stabilità, l’accordo-base dell’Unione monetaria europea – il rapporto tra debito e PIL non deve superare il 60%. Principio finalizzato a garantire che le risorse prodotte, sotto forma di entrate fiscali, dall’economia reale – il prodotto interno lordo – siano sufficienti a finanziare la spesa pubblica e a coprire il debito dello Stato nei confronti dei possessori di titoli pubblici. D’altro canto, in Italia questo tetto è saltato da tempo e lo spread sta andando fuori controllo (appunto, quota 130%). Un parametro che ci porta pericolosamente vicini al default. In altre parole, una situazione che, in attesa di risanamento, impone la pressione di sempre nuove tasse.

Se la prima causa riguardava una certa tendenza alla litigiosità insita nella mentalità nazionale e la seconda chiama in causa l’irresponsabilità della nostra politica economica, la terza ragione conferma vocazioni autodistruttive dello spirito italiano sotto un altro profilo: l’imprevidenza; ossia la scarsissima propensione a prevedere e a premurarsi in materia di rischi statisticamente rilevanti. Infatti quel più 16% di costi aggiuntivi deriva in larga misura dal mancato sviluppo del prodotto Kasko, che negli altri Paesi europei riduce il peso di queste voci sul prodotto RCA.

In conclusione (e con un po’ di amarezza), la conferma dell’assunto di questa rubrica: l’educazione assicurativa come scuola di incivilimento.

Saverio Zavaglia

Ceo Overform Assicura

 

La domanda assicurativa cambia: il caso Millenials

Le percezioni del rischio (statistico) e delle minacce incombenti (psicologiche) sono strettamente dipendenti dalla mentalità delle persone e dal modo con cui esse si rappresentano il mondo che le circonda.

Dunque, un fenomeno storico; costantemente influenzato dal cambiamento di sguardo collettivo al variare dell’epoca. E tutto ciò ha moltissimo da spartire con la professione assicurativa, in cui il professionista è chiamato – in qualche misura – ad assumere anche i tratti del sociologo. Proprio perché opera in uno dei crinali della convivenza più battuti dai venti della sensibilità collettiva.

Soprattutto in presenza di traumi che modificano gli orientamenti prevalenti.

Prendiamo ad esempio quel tragico 11 settembre 2001, quando i terroristi dirottarono due aerei contro le Torri Gemelle di New York: una catastrofe umana che determinò il cambio radicale nella percezione del rischio/minaccia, di cui si diceva, a livello planetario; in particolare a Occidente.

Un importante intellettuale recentemente scomparso – Zygmunt Bauman – riassunse il cambio di percepito in una gradazione espressiva propria della lingua inglese, di cui l’italiano è privo: il passaggio da “security” (sicurezza esistenziale, in quanto collocazione nella società) a “safety” (sicurezza personale, come incolumità); a fronte di un’accelerazione sul fronte dell’incertezza: «La sicurezza per la quale siamo in apprensione […] non è la sicurezza del nostro posto nella società dell’orgoglio dell’abilità tecnica, del rispetto di sé, […] ma la sicurezza nei confronti di coloro che violano la nostra proprietà e degli estranei sulla porta di casa, da vagabondi e mendicanti, maniaci sessuali dentro e fuori casa, avvelenatori di pozzi e dirottatori di aerei» (L’Europa è un’avventura, Laterza, Roma/Bari 2006 pag. 83).

Se – dunque – la domanda assicurativa varia con lo spirito del tempo, altrettanto carica di effetti e influenza è la variazione nelle platee generazionali. Dato evidente analizzando i modelli di rappresentazione dei giovani che avevano attraversato la terribile esperienza dei conflitti mondiali, portatori di bisogni materialissimi (la fame, un tetto, la sopravvivenza), rispetto ai loro figli – “baby boomers” – a cui la pace del dopoguerra induceva attese immateriali, di qualità della vita.

Oggi occupano la scena i cosiddetti Millennials, le coorti nate a cavallo del nuovo secolo/millennio, portatori di giudizi di valore dai quali le risposte assicurative non possono prescindere. Che impegnano l’assicuratore a intense opere di ricognizione e a elaborazioni originali.

Infatti ci troviamo innanzi a quelle che il sociologo di Berkeley Manuel Castells definisce “le tribù del pollice”, praticanti bulimiche delle tecnologie di comunicazione mobile: «il modo in cui i giovani si appropriano della tecnologia della telefonia mobile contribuisce alla creazione della loro cultura» (Mobile communication e trasformazione sociale, Guerini, Milano 2008 pag. 174).

Non a caso vanno diffondendosi polizze che assicurano da furti e altre disavventure l’odierno simbolo della “generazione digitale”: l’I-Phone.

Saverio Zavaglia

Ceo Overform Assicura

 

La Partnership Assicurativa

La vita delle famiglie e di ognuno di noi ha sempre a che fare con l’assicurazione (basti pensare all’auto, alla moto o alla propria casa, alla sanità e alla pensione integrativa). Eppure sappiamo così poco, capiamo ancora meno di quanto stiamo facendo, tanto da scegliere spesso cosa sottoscrivere esclusivamente in base al prezzo. E stipuliamo polizze on line, pensando alla cifra, un fattore importante ma conseguente alle coperture e garanzie.

Insomma l’atteggiamento medio/generale di chi si avvicina a tale stipula è quello di chi sta per acquistare “un prodotto” come un altro. Il più possibile a buon mercato, visto che valutarne l’effettiva qualità presupporrebbe competenze specialistiche non alla portata dell’acquirente medio/generale.

Eppure persiste una dimensione “fiduciaria” che non può essere del tutto espunta dal rapporto mercantile. Su cui vale la pena di insistere per reimpostare la relazione assicurativa secondo criteri meno banalizzanti, recuperando antiche ragioni d’essere. Ragioni gravemente dimenticate, in questa epoca dove si tende a monetizzare qualunque aspetto della civile convivenza; dall’aria che respiriamo ai diritti fondamentali (in primo luogo alla sicurezza).

Infatti secondo autorevoli storici della nostra civiltà europea, il rapporto associativo nasce nelle valli alpestri ancora alla fine dell’Età di Mezzo come “fronte comune contro la minaccia”. Come ebbe a scrivere Michel Albert nel 1991, allora presidente delle Assurances Générales de France, in un saggio che fece discutere: «la forma più antica di assicurazione si sviluppò nelle alte valli delle Alpi, dove gli abitanti dei luoghi organizzarono, al volgere del XVI secolo, le prime società di mutuo soccorso. Da questa tradizione ‘alpina’ discende tutta una serie di organizzazioni di assicurazioni e di previdenza comunitarie: gilde, corporazioni, sindacati di categoria, associazioni mutualistiche. La tradizione ‘alpina’ vuole che ciascun individuo paghi una quota determinata che non ha diretto rapporto con la probabilità di incorrere in prima persona nei pericoli oggetto di assicurazione. In questo modo c’è una sorta di ‘solidarietà’ che si traduce in trasferimento ‘redistributivo’ delle risorse all’interno della comunità. Questa tradizione ha conservato le sue caratteristiche nell’area geografica che l’ha vista nascere: la Svizzera, la Germania… e anche in aree diverse in cui esiste in merito una sensibilità simile: il Giappone, per esempio» (Capitalismo contro capitalismo, il Mulino, Bologna 1993 pag. 97).

Dunque un rapporto che nasceva a quei tempi all’insegna della solidarietà comunitaria, quasi certamente improponibile nei nostri tempi. Ma di cui è possibile recuperare il senso profondo prospettando il rapporto tra assicuratore e assicurato in una logica di partnership. Ossia una sorta di alleanza tra i due soggetti contraenti nella convinzione che la qualità assicurativa sia l’obbiettivo condiviso. Un tema che richiede un approccio comunicativo particolarmente “maturo”. Su cui torneremo a ragionare in quanto primario punto focale di quella che questa rubrica denomina “educazione assicurativa” correttamente intesa.

Saverio Zavaglia

Ceo Overform Assicura

Cambiamenti climatici e criticità assicurative

Al tempo in cui era sindaco di Genova Marta Vincenzi, la città venne insignita del premio “smart” da parte dell’Unione europea per le realizzazioni – si disse – in materia di prevenzione delle calamità naturali.

Purtroppo, poco tempo dopo tale riconoscimento, prevedibili piogge autunnali determinarono lo straripamento non monitorato del torrente Ferregiano, affluente del Bisagno, con relativa alluvione assassina che sommerse buona parte del centro urbano. Tra l’altro, in una sorta di macabra ironia, rammentando il prestigioso certificato proveniente da Bruxelles.

Oggi le vittime delle ormai ricorrenti alluvioni genovesi restano ancora in attesa dei risarcimenti pubblici per i danni subiti. Situazione che evidenzia i ritardi italiani riguardo alla copertura assicurativa di tali danni, più che abituali: la metà delle medie europee.

In base a una ricerca ANIA 2015, i premi danni non auto contribuiscono al PIL italiano solo per lo 0,9%, contro circa l’8% dell’Olanda, il 2% della Spagna, il 2,5% della Germania e il 2,1% del Regno Unito. Un ritardo che ci pone in una posizione migliore solo rispetto a Portogallo (72 euro medi) e Grecia (42 euro annui), esponendoci al rischio che l’ennesima calamità ci trovi impreparati ad affrontare il peso (anzitutto finanziario) dei suoi effetti. Del resto, la minaccia è tutt’altro che teorica: ben il 65% delle abitazioni in Italia è a rischio catastrofi naturali, quando solo il 45% risulta coperto da una polizza.

Perciò si discute da tempo di un modello di copertura misto pubblico-privato per far fronte alle catastrofi naturali; anche se è improbabile che attualmente si possa introdurre l’obbligatorietà della polizza, come avviene in altri Paesi. Semmai è ipotizzabile la predisposizione di incentivi fiscali alla sottoscrizione (cioè la detraibilità della polizza); come già ipotizzato dal ministro per le Infrastrutture Graziano Del Rio. Quanto già avviene ad esempio in Canada e Nuova Zelanda; mentre in Belgio, Francia, Gran Bretagna e Danimarca la protezione è facoltativa, ma diventa obbligatoria qualora venga sottoscritta una polizza contro gli incendi.

L’ostacolo sulla strada per raggiungere una maggiore razionalità assicurativa nazionale potrebbe essere il costo attuale di una tale polizza a copertura di eventi catastrofici, oscillante in un range tra i 79 e i 91 euro annui.

L’uscita dall’impasse può esserci indicata proprio dal “caso neozelandese”, in cui vige la copertura assicurativa obbligatoria: la polizza viene venduta da compagnie private che trasferiscono premi e sinistri a un’organizzazione centralizzata statale (Earth Quake Commission). Il premio è sostanzialmente flat per tutto il territorio, con le tariffe più basse al mondo: 15 cent. ogni 100$ di copertura.

Altro esempio “virtuoso” è quello giapponese, in cui i rischi catastrofali sono ripartiti tra governo, un fondo di coassicurazione (Japan Earthquake Reinsurance) e le compagnie private. Con una percentuale di penetrazione sul 40%- Tra l’altro, in un territorio dove la percentuale di edifici costruiti con moderni criteri antisismici è ben più elevata rispetto all’Italia.

Saverio Zavaglia

CEO Overform Assicura

Le News di Overform Assicura

Overform Group, con la Sua divisione Assicura, aderisce a Confindustria Genova. Per tutto il 2018 , presenzierà all’interno della sezione Affari e Finanza con l’auspicio di poter fornire supporto alle attività di sezione, per competere ed innovare al meglio in questo particolare momento di sviluppo.

Ufficio Stampa

Overform Assicura

 

Europa e Italia

Si riscontra una singolare sintonia tra Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra nel decennio cruciale che va dal 2003 al 2013 (le cui recenti riflessioni sono state pubblicate anche nel nostro Paese), e i messaggi in materia di rischio e incertezza che l’ANRA, ossia l’associazione che dal 1972 raggruppa i Risk Manager e i Responsabili delle assicurazioni aziendali nostri connazionali, continua meritoriamente a diffondere nella cultura d’impresa nazionale.
Definiamone i termini: «il rischio riguarda eventi che si possono indicare con precisione, in base all’esperienza passata, sia la natura dell’esito futuro sia la probabilità che si verifichi», mentre «l’incertezza riguarda eventi di cui non è possibile indicare, e nemmeno immaginare, tutti i possibili esiti futuri, e a cui non è possibile associare una certa probabilità che si verifichi questo o quell’esito» (M. King, La fine dell’alchimia, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 122).
Appurato che una delle funzioni chiave dell’economia di mercato è collegare il presente a un futuro carico di incertezze e rischi, risulta abbastanza singolare constatare quanto sia il pensiero economico che quello manageriale manifestino una profonda riluttanza a metabolizzare tale dato di fatto.
Concentrandoci sul target di ANRA, risultano in tutta chiarezza le differenze che corrono tra il dato europeo e quello italiano. A partire dagli aspetti strutturali degli attori economici in campo, che per il nostro Paese coinvolgono non tanto la quasi totalità di imprese di piccola dimensione tendente al micro, quanto la particolare sovrapposizione della proprietà familiare con la gestione aziendale. Al tempo stesso, la scarsa presenza a livello di organico di figure professionali qualificate da titoli universitari. Difatti il 90% delle Piccole Imprese e l’82% delle Medie Imprese non hanno al proprio interno un Risk Manager
Per quanto riguarda il panorama continentale, un convegno promosso dalla federazione europea FERMA, cui aderisce ANRA, aveva evidenziato che «le aziende sottolineano l’importanza del coinvolgimento diretto del CDA. Ed è chiaro che senza il supporto del CDA, il processo di Risk Management non può funzionare. La maggior parte delle aziende europee ha dichiarato di avere in atto processi di formazione e di aggiornamento per mantenere costantemente informati il board e gli alti dirigenti sull’esposizione al rischio dell’impresa: i rischi principali vengono regolarmente comunicati alla direzione nel 70% delle organizzazioni. È evidente che costruire un efficace processo di questo tipo richiede un canale informativo per i temi legati al rischio. Il 75% degli intervistati ha citato la funzione del rischio come un canale attraverso cui le informazioni, l’analisi e le indicazioni relative ai rischi raggiungono gli alti dirigenti».
A fronte di tale situazione, secondo l’Osservatorio Permanente sul Risk Management nelle PMI italiane di Risk Governance ‐ Politecnico di Milano, nel nostro Paese si rilevano numeri allarmanti: «il 47% delle aziende percepisce oggi il rischio esclusivamente come un fattore negativo da evitare, percentuale che sale al 68% nelle piccole imprese. Invece, va in ogni modo sottolineato come il rischio sia un evento reale, con cui confrontarsi in qualsiasi azione umana o imprenditoriale e, quindi, deve essere gestito come tale, considerando anche la componente di opportunità che è insita in esso».
Saverio Zavaglia
CEO Overform Assicura

Assicurare il lusso

Il recentissimo rapporto – firmato congiuntamente da McKinsey e dal website The Business of Fashion (“The State of Fashion 2017”) – ha fornito i dati, a dir poco “stratosferici”, dei volumi economici che ruotano attorno alla moda: «calcolando il valore generale prodotto dal fashion system globale, si arriva a 2,4 trilioni di dollari, cifra che ne farebbe la settima economia mondiale dopo Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Giappone, India e Regno Unito».

In questo costante crescere imprenditoriale del fashion, si assiste a importanti scelte finalizzate alla diversificazione; che – tra l’altro – impongono estrema attenzione alle problematiche del risk management.

In particolare, le cosiddette “multinazionali della moda”, nell’intento di gestire oculatamente la propria politica di marchio, tendono ad allargare la gamma merceologica che da tale marchio può essere trainata. Sicché importanti brand di successo dell’abbigliamento, sono venuti operando efficaci sovrapposizioni d’immagine in altri ambiti, comunque riconducibili alla moda e al lusso; quali la calzatura e l’occhialeria, per arrivare persino alle piastrelle d’arredamento “firmate”.

Tale spinta alla diversificazione produttiva aumenta la complessità della governance d’impresa e può tradursi anche in una perdita di controllo. Inoltre, non sempre aziende concentrate sul proprio core business hanno la giusta percezione del rischio inerente alle proprie royalties – che pure rappresentano di sovente una quota significativa del fatturato – e del danno, da cui potrebbero derivare profonde ripercussioni sull’immagine o sulla reputazione aziendale.

A tale proposito si può notare che la gestione coordinata dell’incertezza del business attraverso strategie assicurative, anche nel caso dell’industria del fashion risponde a due criteri. Uno psicologico e l’altro statistico: “il fronte comune contro la minaccia” e “la scommessa sul rischio”. Nella contrapposizione tra la logica finanziaria “a breve” e quella industriale, orientata al medio-lungo periodo.

Tali distinzioni a parte, osserviamo che attualmente i sinistri coperti dalle polizze assicurative per il settore moda riguardano:

• Danni alle collezioni, compresi quelli durante una sfilata o uno shooting fotografico

• La rete dei fornitori e sub-fornitori, alla luce del crescente orientamento alla delocalizzazione produttiva

• Servizi di gestione e mappatura dei rischi legati ai punti vendita a livello mondiale

• I rischi di mis-labelling, con richiamo delle merci e danni di immagine

• L’interruzione di attività

• La messa a punto di un efficace piano di Business Continuity

• Il monitoraggio regolare e le ispezioni sulle attrezzature e i macchinari per ridurre la possibilità di malfunzionamento o ritardi di produzione

• Le perdite finanziarie e dei costi di ripristino conseguenti a danni ad apparecchiature.

È un nuovo mondo che si apre innanzi tanto all’impresa assicurata come a quella assicurativa. Che richiede a entrambi i contraenti un significativo salto di qualità nella focalizzazione dei ruoli e del rispettivo modo di rapportarsi reciprocamente.

Saverio Zavaglia

Ceo Overform Assicura

www.overform-assicura.it

 

Cane morde? Proprietario condannato per lesioni

Oggi nel salotto di Overform parliamo della responsabilità del padrone del cane per le lesioni provocate dall’animale. Lo spunto è offerto dalla recente sentenza della Cassazione n. 3873/2018.

Proprietario del cane responsabile per le lesioni provocate dall’animale

C’è poco da fare, quando si decide di prendere un cane bisogna ricordarsi anche che si è responsabili di tutte le azioni commesse dall’animale di compagnia. Sia che il cane sia di taglia piccola oppure di taglia grande, l’amico a quattro zampe è sempre imprevedibile e per paura, per gelosia o per altri fattori contingenti può aggredire qualcuno.

Di regola,dunque,la responsabilità per i danni a cose o per le lesioni commesse in danno di persone ricade sempre sul proprietario dell’animale salvo provare il caso fortuito e cioè che il fatto si sia verificato per l’esistenza di un fattore esterno imprevedibile, inevitabile ed assolutamente eccezionale.

Nel caso in questione un uomo è stato condannato per il reato di lesioni(art.582 c.p.) perché quattro suoi cani,uscendo dal cancello della sua abitazione, avevano aggredito un passante. La responsabilità dell’uomo è emersa non solo dalle dichiarazioni della persona offesa ma soprattutto dalla frettolosa e poco sicura chiusura del cancello che aveva determinato la fuoriuscita degli animali.

Non ha retto, invece, la tesi difensiva dell’uomo che ha ritenuto che la responsabilità del proprietario del cane non potesse basarsi esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa non corredate da un documento che provasse la proprieta’ dell’uomo sui cani.