Rischio, mantra e tormentone dell’età globale

Lo scorso settembre ANRA, l’associazione milanese dei risk manager e dei responsabili assicurativi aziendali, ha promosso un importante convegno dal titolo “Cavalcare le onde della cultura globale e aziendale”. Tema dell’incontro il rischio come sfida organizzativa e della governance d’impresa.

Potrebbe essere utile per un più completo inquadramento della problematica riflettere sulle ragioni per cui il pericolo statistico è diventata uno dei principali oggetti di studio della sociologia contemporanea. Il mantra che stinge a tormentone quando viene declinato politicamente in operazioni che propongono gli argomenti securitari, intesi come tutela dell’incolumità (safety); presentati come alternativa alla sicurezza, quale garanzia dei diritti di cittadinanza (security). Il criterio afondamento del Welfare State diffusosi nel secondo dopoguerra.

Il primo studioso che ha posto il concetto di rischio al centro delle proprie analisi è stato Ulrich Beck (1944-2015), docente dell’Università di Monaco di Baviera e della London School, che nel 1986 pubblicò un saggio diventato famoso: “La società del rischio. Verso una seconda modernità”. La cosiddetta “Risikogesellshaft,così sintetizzata da un altro sociologo, Zygmunt Bauman(1925-2017): «la sostituzione dell’idea di pericolo con quella di rischio rappresenta fedelmente il mutamento decisivo intervenuto nel significato di crisi. L’essere in crisi non è più visto come un deplorevole rovescio di fortuna o un infortunio ma come un attributo inamovibile della condizione umana» (La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli 2000 pag.150). Dunque la teoria che identifica nella produzione e gestione del rischio il tratto che caratterizza le società contemporanee, a seguito di un sistematico abbattimento delle difese costruite attraverso lo Stato Sociale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e finalizzate a limitare il grado di incertezza e la portata del danno che l’incertezza arreca. All’insegna di quell’individualizzazione, altro mantra del tempo, per cui – dicendola con Beck – siamo chiamati a condurre «un’esistenza che mescola la figura di Robinson Crusoee dell’imprenditore di se stesso» (Libertà o Capitalismo, Carocci, 2001 pag. 176).

La produzione sociale del rischio, che non segnala un aumento quantitativo delle minacce nelle nostre società quanto un diverso grado di percezione e attenzione nei loro confronti. E le conseguenti trasformazioni organizzative inerenti.

Se la società scaturita dalla rivoluzione industriale affrontava le incertezze indotte dalla modernizzazione (la dissoluzione della società tradizionale, in larga misura contadina, a seguito dei processi di urbanizzazione e raccolta dei lavoratori all’interno dei perimetri delle fabbriche) ricreando nuove forme di solidarietà a base razionale (associazionismo e tutele pubbliche), l’incertezza post-industriale obbliga a forme fai-da-te, sovente inefficaci, che modificano le relazioni sociali; anche perché le risorse per gestire il rischio(ricchezza, informazione e conoscenza) sono distribuite in maniera disuguale. Ad esempio gli effetti del cambiamento climatico, prodotti dall’attività umana, incidono maggiormente sulle condizioni delle popolazioni più povere. Soprattutto l’esternalizzazione delle produzioni riduce il lavoro ad attività precarizzate. Sicché – scrive ancora Beck – «la società del lavoro, considerata dalla prospettiva degli individui, si trasforma in società del rischio. Mentre la società della piena occupazione era un rischio calcolabile per i singoli, ora il lavoro flessibile diventa un rischio più o meno incalcolabile» (Libertà, cit. pag. 140). Insomma, a latere del convegno di ANRA si potrebbe osservare che in materia di rischio non vi sono solo problemi aziendali, ma anche aspetti che toccano direttamente le persone. Interlocutori primari della professione assicurativa.

Saverio Zavaglia