Il crollo del Pil taglia le future pensioni fino al 2,5-3%

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La grave recessione economica colpirà anche chi andrà in pensione nei prossimi anni. Il crollo del prodotto interno lordo avrà infatti conseguenze negative sulla rivalutazione del montante contributivo (per i versamenti dal primo gennaio 1996 in poi) alla base del calcolo dell’assegno. Spetterà al governo decidere se far finta di nulla, il che determinerebbe una riduzione permanente degli assegni che verranno liquidati dal 2022-23 in poi e che potrà arrivare fino al 2,5-3% per gli assegni interamente contributivi rispetto all’importo che si sarebbe avuto senza la recessione post Covid-19 (una trentina di euro lordi in meno al mese, prendendo come riferimento l’importo medio lordo delle pensioni liquidate nel 2019, cioè 1.126 euro) oppure intervenire, come fece nel 2015 l’esecutivo Renzi, bloccando temporaneamente l’applicazione del tasso di variazione del montante che, per la prima volta, era negativo.
Quando il coefficiente va sotto zero
Il meccanismo è complesso da spiegare, ma risponde al criterio ispiratore della riforma Dini (1995) di mantenere l’equilibrio finanziario del sistema, liquidando pensioni frutto dei contributi versati e dell’andamento del Pil. Il metodo di calcolo contributivo della pensione si applica su tutti i versamenti dal 1996 in poi, escludendo solo coloro che a quella data avevano più di 18 anni di contributi, che mantengono il più vantaggioso sistema di calcolo retributivo e che tra l’altro sono già quasi tutti andati in pensione. Gli altri ricadono invece in tutto (se hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995) o in parte (se hanno cominciato prima) nel metodo contributivo. Che prevede appunto la rivalutazione del montante versato sulla base di un coefficiente calcolato ogni anno dall’Inps sull’andamento del Pil nei 5 anni precedenti. Dal 1996 in poi questo coefficiente è stato sempre positivo, sia pure in calo a causa del progressivo rallentamento della crescita dell’economia. Nel 2015, per la prima volta, il coefficiente presentò il segno meno (-0,001927), il che avrebbe prodotto un leggero taglio del montante accumulato fino a quel momento. Ma il governo, con il decreto legge 65 del 2015, stabilì che per quell’anno la variazione non si applicasse e il montante non subisse riduzioni.
L’impatto dal 2022
La stessa norma regola anche il da farsi nel caso in cui si abbiano di nuovo (come potrebbe accadere ora) coefficienti negativi, stabilendo che lo scarto col segno meno debba essere recuperato negli anni successivi sottraendolo dai tassi positivi, senza mai scendere sotto lo zero (se necessario, quindi, il recupero avverrà in più anni). In ogni caso, anche se non si arrivasse a coefficienti negativi (perché già dal 2021 il Pil dovesse tornare, come prevede il governo, in crescita), è chiaro che essi saranno nettamente più bassi di come sarebbero stati senza la recessione post Covid-19, determinando appunto una perdita permanente sui nuovi assegni (dal 2022, perché, per via dello sfasamento di un anno previsto dalla legge, quello sarà il primo anno cui si applicherà un coefficiente frutto anche del Pil 2020) di qualche decina di euro al mese. Il quotidiano il Messaggero, che oggi solleva il caso, calcola per esempio che una persona nata nel 1956 che ha cominciato a lavorare nel 1980 e va in pensione nel 2023 a 67 anni, perde il 2,7% sulla parte contributiva della pensione e l’1,7% dell’importo complessivo della pensione lorda , in questo caso calcolata col sistema misto (retributivo fino al 1996, contributivo dopo). Quindi, anche se la pandemia, come tutti ci auguriamo, passerà, i danni che lascerà peseranno purtroppo per molti anni.
Fonte Enrico Marro
Il corriere della sera